Fermi al palo
Articolo tratto da BIKE Volume 11, edizione Winter gennaio-marzo 2023
Non si può dire che sia stato un autunno tranquillo per i ciclisti italiani. I morti sulle strade sono entrati con frequenza in un lugubre bollettino, culminato con l'uccisione di Davide Rebellin, a poche settimane dal suo ritiro. Né sono mancati gli attacchi verbali, come spesso capita quando si parla delle vittime. Ma frequenti sono state le risposte di chi pedala ogni giorno. Nella sola città di Milano si sono contati in poche settimane una manifestazione per chiedere una pista ciclabile, una catena umana per difendere una bike lane dalle auto, un flash mob in reazione alle critiche sui giornali. I ciclisti ci si mettono in prima persona, e non hanno altra scelta. Per capirli basta scorrere i dati divulgati lo scorso autunno dal dossier Non è un paese per bici, ad opera di Clean cities, coalizione internazionale di oltre sessanta ong, associazioni e movimenti ambientalisti, che ha analizzato le strade delle città italiane ed europee per valutare la reale penetrazione della mobilità ciclistica. Il quadro che emerge è desolante.
Clean cities ha confrontato le infrastrutture italiane con quelle europee e ha analizzato i progetti presentati per i prossimi anni. Sulla base di questi dati è stata costruita una scala di efficienza che suddivide le città italiane in classi da A+ a G. Più della metà ricadono nelle due classi più basse, mentre sono meno del 10% quelle che rientrano nelle classi A e B. Se città come Reggio Emilia, Modena o Ferrara viaggiano su medie di eccellenza da 12-15 chilometri ciclabili ogni 10mila abitanti, nei grandi centri la situazione è disastrosa: con Milano che sta intorno ai due chilometri, Roma solo uno e Napoli addirittura 0,3.
Il quadro si fa solo leggermente meno tetro quando si passa all'analisi dei Pums, i piani per la mobilità presentati dai comuni, nei quali l'intenzione di estendere i chilometri ciclabili c'è, seppur restando ancora ben lontani da numeri virtuosi, ma si scontra immediatamente con la carenza di risorse. Perché costruire piste ciclabili, specialmente in sede separata, costa parecchio, intorno ai 200mila euro al chilometro. Sicché, anche sommando tutti i migliori progetti, si sfora il triplo dei fondi originariamente stanziati dal governo, peraltro fortemente decurtati dall'ultima finanziaria.
Ma, una volta fotografata la situazione, il dossier di Clean Cities guarda avanti, snocciolando obiettivi e proposte per la mobilità del prossimo decennio. L'obiettivo sarebbe triplicare, o meglio quadruplicare, i chilometri ciclabili nelle città italiane. Uno scenario che da solo non basterebbe, perché andrebbe rinforzato dagli investimenti in un trasporto pubblico che nelle città sta diventando sempre più caro e spopolato, e da forti restrizioni alle automobili (finanziandoli con una piccola percentuale di quei 98,6 miliardi che ogni anno l'Italia devolve alla mobilità motorizzata), ma che segnerebbe un netto passo avanti. Per compierlo è necessario però che i progetti siano orchestrati dal Piano generale della mobilità ciclistica, un documento di programmazione per il prossimo decennio, gestito da una struttura tecnica ad hoc, all'interno del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Starà a questa regia organizzare finanziamenti per infrastrutture e mezzi in condivisione, sgravi fiscali e incentivi, progettazione e promozione dell'intermodalità, e soprattutto “una grande campagna di sensibilizzazione sulla bicicletta come mezzo di trasporto per gli spostamenti quotidiani per lavoro e studio”.
Il dossier si concentra molto sull'insufficiente copertura economica, ma le esperienze già n vigore mostrano come ci siano misure semplici che si possono applicare da subito. A partire dal ‘disarmare’ le troppe auto in circolazione. Perché se, come ha giustamente ricordato l'ex maglia rosa Alessandro De Marchi dopo l'uccisione di Rebellin, “guidare un'automobile è come avere una pistola in mano”, ciò che le rende letali è la velocità. Ridurre a 30 chilometri orari il limite massimo sulle strade urbane è una delle soluzioni più immediate e di facile attuazione. All'estero sta già succedendo in metropoli come Bruxelles o Parigi; lo stesso hanno fatto Helsinki, Valencia e Zurigo ma pure Parma e Bologna. Se Parigi negli ultimi anni è stata guardata come un modello è anche perché la capitale francese ha compreso una regola molto semplice: ovvero che per migliorare la vita dei ciclisti è necessario complicarla agli automobilisti. Perché racimolare finanziamenti per complicate ciclabili quando basta chiudere una strada alle auto e destinarla alle bici, o anche solo concedere il doppio senso alle bici sulle strade a senso unico? Parigi ha fatto così. Come ha preso strade a quattro corsie e ne ha date tre ai ciclisti: alle auto ne resta una, congestionata. Non vi è modo più efficace per incentivare la ciclabilità che scoraggiare l'uso dell'auto, perché meno auto significa anche più bici, ma soprattutto significa ridurre statisticamente il pericolo, l'ingombro e persino l'inquinamento.
Invece, come rimarca il dossier, se questo non è un paese per bici, sicuramente è un paradiso per le auto. In Italia il trasporto stradale è responsabile del 28,4% delle emissioni di Co2 e del 10% delle polveri sottili in atmosfera, facendo del nostro il paese leader per la peggior qualità dell'aria. Inoltre, le città con più auto sono quelle con meno dotazioni ciclabili e reddito più basso. Puntare sulla bicicletta, il mezzo più economico, e invertire quel rapporto 1:100 degli investimenti tra bici e auto, è soprattutto una questione di giustizia sociale. E un paese per bici sarebbe un paese più giusto per tutti.
(Foto: Shutterstock)