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bartoletti

L'avventura di vivere

Articolo pubblicato su BIKE Volume 8, edizione spring, aprile-giugno 2022

Dagli Appennini (toscani) alle Ande. Sempre pedalando e con l’entusiasmo di un ragazzo che ha fatto del pedalare un mantra. Pedalare per migliorarsi, per accettare le sfide, per sentirsi libero. Qualunque sia la destinazione di quella gioiosa fatica.

La passione per la bici di Lorenzo Cherubini è nota; meno lo è quella specie di letizia mistica con cui ne parla, a tratti in maniera adolescenziale e a tratti quasi con religiosità. “Forse è perché – sorride – ho imparato ad andare in bicicletta sotto al colonnato di San Pietro. Mio babbo Mario lavorava nella Gendarmeria vaticana e noi vivevamo praticamente sotto al Cupolone. La bicicletta lasciava un po’ a desiderare: era una Graziella blu appartenuta prima a mio fratello Umberto, poi a mio fratello Bernardo e finalmente a me. Solo che”, prosegue, “io l’avevo – come dire – un po’ personalizzata, tanto che, quando arrivò il momento di passarla alla mia sorellina Anna, ormai era praticamente da buttare”.

Alla scalcagnata Graziella ne sarebbero succeduti di telai e ruote, prima di giungere alla F12 Pinarello di cui Lorenzo è un fedelissimo. Un “grande amore”, quello per la bicicletta, che lo ha portato a pedalare per migliaia e migliaia di kilometri, fin nei posti più incredibili del mondo: dall’Asia al Continente australe, fino all’ultima meravigliosa follia sulla Cordigliera sudamericana. Era l’inizio del 2020 e il mondo stava ‘chiudendo’ per pandemia.

“Sono stati mesi e mesi di riflessione, non sprecati, almeno per quanto riguarda il mio lavoro. Certo, quando a febbraio mi sono esibito a Sanremo assieme a Gianni Morandi davanti al pubblico mi sono sentito felice come poche altre volte”, confida. “Ora sto preparando la nuova estate del Jova Beach Party che inizierà a luglio. Inviterò la gente, là dove sia possibile, a venire in bicicletta con modalità che stiamo mettendo a punto con vari enti e associazioni (come la Fiab, per esempio)”. Ha già chiesto a Dino Lanzaretti, “che si è appena fatto tutta la Siberia su due ruote, di tornare in tempo, perché voglio che sia il protagonista di uno dei miei eventi”. E aggiunge: “Credetemi, io sembro matto, ma lui è la prova che esiste qualcuno più matto di me. Come quella coppia di impiegati tedeschi, un uomo e una donna, che incontrai in Cile e che si erano presi due anni di aspettativa per farsi tutta l’America dall’estremo nord all’estremo sud in bici e venivano dall’Alaska”.

Lorenzo, quando libera il pensiero su questa sua passione (e su chi la pratica come intende lui) è un adorabile fiume in piena. “La bicicletta è il mio contrappeso, l’altro piatto della mia bilancia: per quanto mi piaccia stare in mezzo alla gente e fare casino, allo stesso tempo ho bisogno di isolarmi, di riflettere, di meditare e quello è il mezzo ideale. Forse paragonabile solo alla poesia di una regata in solitario nell’Oceano”. E non si riferisce solamente ai grandi viaggi. “A volte, quando sono a casa, sento proprio il bisogno fisico e mentale di inforcarla e uscire per una e due ore, quello che mi va: tanto qui a Cortona ogni strada che prendi è buona. Ho ancora la gamba, sai? Posso fare 130-140 chilometri, salite comprese, a una media di 27 all’ora o giù di lì. Non c’è il tetto di una palestra, c’è solo il cielo”. E se piove? “Si procede lo stesso, pedalata dietro pedalata, assaporando la strada. La testa, come per incanto, ti si sgombra completamente”.

Forse è stato proprio mio babbo ad attaccarmi questa malattia. Era un grande tifoso di Bartali. È grazie a lui che non ho mai seguito il calcio: sempre e solo ciclismo. Quando ero piccolo e cominciava il Giro d’Italia, ci chiudevamo in salotto noi due da soli a vedere tutte le tappe in televisione”. Anche in casa Cherubini il Giro ha sempre significato l’inizio dell’estate: “Ho fatto in tempo ad assaporare i duelli fra Gimondi e Merckx, ma i primi palpiti da tifoso li ho vissuti con Moser e Saronni. Beppe mi piaceva di più, non saprei neanche spiegare perché; forse mi riconoscevo in quel suo carattere un po’ guascone. Ricordo un arrivo di tappa a Cortona, quand’ero ragazzino: mi misi sull’ultima curva in salita per godermi la volata. La carovana, le sirene, la scorta e il fruscio delle ruote sono un’emozione che mi porto ancora dentro. Mi sentivo come in una canzone di Paolo Conte”.

Eppure, da ‘grande’, Lorenzo Cherubini non ha più seguito il Giro. “Sai perché?”, spiega: “Non vorrei disturbare. Non vorrei che si pensasse che ho portato con me il ‘personaggio’. Se, però, trovi la formula per farmi diventare invisibile”, assicura, “giuro che ci vengo”. E ribadisce: “Te l’ho detto, per me il ciclismo è prima di tutto solitudine, gioia di stare con me stesso: al massimo mi tengo vicino il mio amico Gus che è il ‘medico’ delle mie bici. Le allestisce, mi fa il ‘vestito’ su misura. Sai cosa mi ha detto, assieme al mio amico Fausto Pinarello? Che ho la stessa identica taglia di Filippo Ganna. Mica male, no?”.

Gus in realtà si chiama Augusto Baldoni ed è di Forlì. “È la prova vivente che la bici ti libera la mente”, osserva, “e che ti dà persino coraggio nelle scelte. Al ritorno dal viaggio che facemmo in Pakistan sul Karakorum, lui che faceva il meccanico in un grande bike-store mi disse: ‘Sai che c’è? Voglio andare avanti da solo. In fondo cosa mi può succedere?’”. Ottenne un fido in banca, con la moglie che lo guardava sgomenta perché rinunciava a un lavoro sicuro, e mise in piedi, dapprima un piccolo negozio di bici e poi una meravigliosa boutique che è diventata punto d’incontro dei cicloamatori della zona. “È nella sua officina che metto a punto tutte le mie nuove bici. Rigorosamente Pinarello, perché Fausto, che ha la mia stessa età, oltre a essere un costruttore straordinario, per tanti motivi (anche dolorosi) è per me come un altro fratello”.

“La Romagna è veramente la mia seconda patria”, si lascia sfuggire Lorenzo. “In fondo l’amore vero per la bicicletta l’ho maturato lì: a un certo punto avevo addirittura messo in piedi una squadra tutta mia obbligan… cioè chiedendo a quanti lavoravano con me di allenarsi in gruppo e di fare persino le granfondo al mio fianco. Poi ho capito che stavo diventando come il Visconte Cobram di Fantozzi. E mi sono rituffato nella mia adorata solitudine”. Romagna significa Pantani. “Già, Marco, il più grande di tutti. Non avendo vissuto l’era di Coppi, penso che il Panta mediaticamente parlando abbia avuto un impatto persino superiore al suo. Era forte ed empatico: la sua superiorità mentale incuteva timore. Allo stesso tempo ti veniva voglia di proteggerlo per la sua fragilità. In qualche occasione siamo usciti in bici insieme e ricordo nitidamente quello che mi disse: cioè che, una volta finita la carriera, non avrebbe più voluto stare nell'ambiente del ciclismo. Come se non gli interessasse più o gli andasse stretto. Che io sappia gli piaceva moltissimo il mondo della musica”.

Tante sono le sfide che Lorenzo ha in testa per il prossimo futuro. “Vorrei andare in Africa”, precisa: “Partire da Tangeri, percorrere il Marocco, il Sahara Occidentale e arrivare in Senegal, fino a Dakar. Sarebbe dura, ma neanche poi così tanto. E soprattutto so che anche lì non sarei mai solo né in pericolo, come non lo sono stato sulle Ande o in Iran o in Caucaso o in Armenia, dove ho sempre trovato persone disposte ad aprirmi le loro case”.

Di canzoni alla moto Jova ne ha dedicate più di una, ma non alla sua bici. Una mancanza? Nient’affatto: “La bici, per me, è una cosa troppo importante per dedicarle ‘solo’ una canzone”, conclude. E così ci regala una poesia: “Le distanze esistono per essere percorse: se non c’è distanza non c’è desiderio, se non c’è desiderio non c’è avventura, se non c’è avventura non c’è un bel niente per cui valga la pena vivere”.

Jovanotti
Lorenzo osserva la sua bici nell'officina di Gus