Fondazione Ambrogio Molteni, una spinta a chi pedala in salita
Articolo tratto da BIKE Volume 10, edizione Autumn ottobre-dicembre 2022
Chi ha dai cinquant’anni in su, scagli la prima biglia se, davanti a un circuito di sabbia, non ne ha mai desiderata una di Eddy Merckx con la maglia Molteni. Chi ne ha di meno, invece, si accomodi sulla poltrona: perché questa non è solo una storia di ciclismo o di imprenditoria, ma una vera e propria storia d’amore. E un po’ anche di salami.
Forse non esisteva nemmeno la parola sponsor quando nonno Pietro decise di patrocinare una squadra di ciclismo. E se esisteva era una quasi sconosciuta – e probabilmente dimenticata (almeno in Italia) – parola latina! Pietro Molteni aveva poco più che una bottega da salumiere a Lurago d’Erba, dove si era trasferito dalla natìa Alzate Brianza. Era sveglio e creativo. Aveva capito che i prodotti non bisognava solo farli buoni, ma anche farli conoscere. E lui aveva un’eccellente predisposizione per l’una e l’altra cosa: così, da ottimo macellaio e da comunicatore ante litteram (a costo di andare in bici per la Brianza di casolare in casolare), piano piano si ingrandì, creando una vera e propria azienda. Non aveva timore neanche di prendere il treno per ampliare il più possibile i propri confini: inventando di fatto, attraverso una rete di grossisti, la grande distribuzione che ancora non esisteva.
L’impresa assunse dimensioni sempre maggiori, anche grazie a importanti intuizioni e all’acquisizione di singole aziende specializzate nei vari prodotti (la mortadella da una parte, la pancetta da un’altra, la carne in scatola da un’altra ancora): ma su tutti c’era il marchio e soprattutto la garanzia di qualità Molteni.
Mancava solo un piccolo step: la notorietà a livello nazionale, con la quale il sciur Pietro ormai non aveva più nessun problema a cimentarsi: tanto più che accanto a lui era cresciuto – preparato, ambizioso e in gamba – anche il figlio Ambrogio, classe 1933. Il brainstorming sull’argomento si tenne certamente in strettissimo slang brianzolo, dibattendo se fosse meglio fare un Carosello (allora unica possibilità di pubblicità televisiva) o creare una squadra ciclistica (antica passione di casa): “Sel custa fà un Carusel? Pusèe e fà ‘na squadra de biciclett ca la và al Gir insci de vess vista de tucc?”. “No la custa de men e se divertisum anca pusèe”.
Affare fatto! Il ‘divertimento’ cominciò nel 1958, con le maglie blu e camoscio della neonata formazione Alimentari Molteni alla partenza del Giro vinto da Ercole Baldini (l’ultimo, per la cronaca, corso da Fausto Coppi), che precedette Brankart, Gaul, Bobet e Nencini: roba, grossa, insomma. Punta di diamante della squadra (già internazionale) il tedesco Junkermann (tredicesimo assoluto e destinato a una carriera decorosissima).
Con lui altri due tedeschi (Muller e Reinecke), uno svizzero (Schaer), un italiano… che viveva in Svizzera (De Gasperi), e tre… lombardi: Carizzoni, Buratti e Donato Piazza, detto Piazza Grande non solo perché era molto alto, ma anche perché era il fratello maggiore di un altro Piazza che faceva l’autista per la ditta. Ma già l’anno dopo fu subito campagna-acquisti e la musica cambiò: dentro Carlesi (già vincitore di tappe al Giro e al Tour), lo svizzero Graf (già vincitore del Tour de Suisse e fra i migliori cronomen in circolazione, che conquistò a Milano la prima tappa-Molteni al Giro), dentro soprattutto quel Giorgio Albani, già campione d’Italia che, sceso dalla bici, sarebbe diventato la raffinatissima mente che portò la Molteni a tutti i trionfi degli anni successivi.
“Io nacqui all’inizio degli anni ‘60 – dice Mario Molteni, figlio di Ambrogio, appassionato custode assieme alla sorella Pierangela – di questo bellissimo romanzo popolare. Ricordo vagamente l’arrivo in squadra di Motta e Dancelli giovanissimi e tutte le gioie che ci diedero (qualcuno sostiene che quando Michele vinse la Milano-Sanremo dopo 17 anni di digiuno italiano ci fu chi sentì nonno Pietro urlare: Vai Michelin… forsa campiun… se te la fè, te regali il stabliment!)”.
Era il 1970 quando il nonno e il papà ingaggiarono il più grande. Entrambe le parti furono correttissime. I Molteni dissero a Merckx: “Se te ne dovessi andare dalla Faema noi siamo qua: le condizioni falle tu”. Eddy rispose: “Se la Faema mi lascia libero la cosa è fatta”. Un contratto di sei righe aggiornato ogni due anni e una stretta di mano. "Oggetto: contratto di corridore ciclista – Con la presente scrittura privata, il corridore ciclista signor Eddy Merckx si impegna a correre le stagioni ciclistiche 1975 e 1976 per il Gruppo sportivo Molteni. Il signor Ambrogio Molteni corrisponde a favore del signor Eddy Merckx la somma di franchi belgi sei milioni per anno fermo restando tutti i punti dell’accordo.31 dicembre 1974”. Punto. Fra parentesi, sei milioni di franchi erano circa 300 milioni di lire. Una cifra importante, ma non stratosferica.
“Praticamente vennero allestite due squadre – dice Mario –: con una Eddy poteva fare tutte le gare che voleva all’estero, con l’altra aveva l’impegno morale – solo quello – di partecipare, al Giro, alla Sanremo e alle corse importanti in Italia. In effetti…. non si fermava mai. Era generosissimo. E a ogni sua vittoria aumentava il fatturato dell’azienda”.
“Papà, che forse neanche conosceva la parola marketing e men che meno la parola convention, aveva inventato il ciclismo moderno, facendo – chessò – quello che poi avrebbe fatto Sky in termini di impegni sdoppiati o quello che avrebbe fatto Mediolanum di ottimizzazione degli eventi sul territorio. Fummo anche i primi a portare un arrivo di tappa davanti agli stabilimenti: era il 1976, vinse il nostro Bruyère. Gimondi conquistò la maglia rosa e il giorno dopo la portò a Milano. Eddy cominciava a essere un po’ stanco: anche se all’inizio di quella stagione aveva vinto la sua settima Milano-Sanremo.
Ma è vero che papà stesso diventò così famoso che gli venne proposta la presidenza dell’Inter?
“Sì l’Inter del suo idolo Sandrino Mazzola. Ma preferì non accettare. Lui amava solo il ciclismo. E l’Inter andò a Fraizzoli”.
Certo che anche nel ciclismo italiano allora c’era veramente un grande derby: Molteni da una parte, Salvarani dall’altra, salumi contro cucine. In entrambi i casi due grandi e appassionate famiglie alle spalle e grandi successi sportivi che diventarono il volano anche di un’enorme visibilità.
“Sì, è vero, c’era indubbiamente un po’ di rivalità. Ma anche un rispetto infinito. Così come il nonno e il papà ammiravano Giovanni Borghi, che con la sua Ignis aveva fatto dello sport a 360 gradi il volano del suo successo commerciale”.
Diciotto anni di trionfi, poi i tempi cambiarono. Ora però il marchio Molteni si rimette in gioco…
“Credo sia giusto così. Niente corse, ma aiuto concreto per ciclisti in difficoltà. Soprattutto quelli colpiti da un infortunio. Con la Fondazione Ambrogio Molteni abbiamo già archiviato qualche bella storia”.
Ma la divisa camoscio e blu non la vedremo più in una corsa ciclistica?
“Penso proprio di no. La uso io con qualche amico nelle nostre uscite amatoriali (per non fare torto a due grandi amici uso la bici De Rosa su strada e la Colnago all’Eroica). E poi c’è il merchandasing con l’amico Giovanni Rosti. Un sogno però ce l’avrei: fare una gran fondo Arcore-Ghisallo tutti in maglia Molteni”.
Niente più Giro, niente più Tour dunque. Ma se tornasse papà?
“Non credo che riuscirei a fermarlo!”.
DENTRO UNA MAGLIA C’È VITA
Aiutare ciclisti in difficoltà a riscrivere le pagine di una storia che non è andata come si sarebbe voluto. Perché lo sport non è fatto solo di successi e lustrini, ma anche di prove e talvoltà difficoltà. È a questo livello che la Fondazione Ambrogio Molteni, costituita dai figli Mario e Pierangela nella memoria del padre e del suo storico team ciclistico, vuole aiutare i meno fortunati, perché i “campioni passano, la vita continua”, si legge sul sito internet ad essa dedicato. Una storia di successi non certo esente, a sua volta, da prove e difficoltà che, come racconta anche Pier Augusto Stagi nel libro Molteni. Storia di una famiglia e di una squadra (Prima Pagina Edizioni) con prefazione di Eddy Merckx, confluisce oggi nella Mission della Fondazione: portare un aiuto concreto ad ex professionisti del ciclismo mondiale in difficoltà perchè caduti in indigenza o rimasti vittime di infortuni invalidanti o per diverse vicissitudini. L’attenzione della Fondazione potrà riguardare anche casi di giovani talenti il cui cammino verso il successo nel ciclismo professionistico sia stato compromesso da gravi incidenti. Un nobile obiettivo per cui il marchio e l'immagine di Molteni – rimanendo fedeli alla grafica e ai colori di allora – sono stati riscoperto con nuove maglie firmate Rosti, in modo funzionale a dare un senso storico all’impegno che la famiglia intende portare avanti nel ciclismo.
UNA STORIA DI SUCCESSI
La Molteni ha gareggiato per 19 stagioni consecutive (dal 1958 al 1976) vincendo complessivamente 633 gare (208 in Italia e 455 all’estero): con la sua maglia hanno corso 77 ciclisti italiani e 47 stranieri (in prevalenza belgi, 37). Il solo Eddy Merckx, dal 1971 al 1976 ha vinto 246 volte. Nel palmarès, fra l’altro, tre titoli mondiali (Altig 1966, Merckx 1971, 1974), 57 vittorie di tappa al Giro e quattro successi finali (Motta 1966, Merckx 1972, 1973, 1974), 37 tappe al Tour con tre successi finali (Merckx 1971, 1972, 1974), 8 tappe alla Vuelta a un successo finale (Merckx 1973). Quindici vittorie nelle classiche monumento (Lombardia, Sanremo, Liegi, Roubaix, Fiandre) in buona parte con Merckx, oltre a Motta, Dancelli e Bruyere. Di Merckx anche lo storico record dell’ora del 1972 su bici Colnago.
(Foto per gentile concessione della Fondazione Ambrogio Molteni)