Dallo stigma sui rapporti agili all'esempio dei campioni
Fino a qualche anno fa sembrava un sacrilegio montare qualcosa di più agile rispetto a un ‘25’ sul pacco pignoni di una biciletta da corsa. “Contano le gambe”, rispondeva il ciclista esperto che aveva venduto la biciletta all’amatore alle prime armi reduce dal duro impatto con le prime salite impervie. E non aveva tutti i torti. Perché davvero quello che contano sono le gambe. E la stessa salita, che aveva quasi rispedito indietro l’appassionato ancora in fase di rodaggio, qualche mese dopo diventa molto più malleabile. Capitava si scalare il Passo dello Stelvio con il ‘25’ senza avere niente di più riposante.
Ma negli ultimi dieci anni è cambiato molto nella considerazione dei rapporti delle biciclette da corsa. Il primo punto di svolta è stato rappresentato dall’introduzione delle moltipliche Compact, con rapporti sulla corona anteriore 50x34 rispetto al classico 53x39. Poi il discorso si è spostato sul cassetto posteriore. E il muro del '25' è progressivamente caduto. Prima si è passati a una corona con 30 denti per le salite più dure: “Da tenere lì”, come dicono i cicloamatori che affrontano l’argomento con un certo pudore. Quasi a dire che il '30' è lì, ma non viene usato. Adesso, invece, non è più un tabù nemmeno parlare del ‘34’.
Il tenore delle discussioni tra appassionati è completamente cambiato: “Ma mettilo il 34, ti serve, non farti problemi, ormai è questione di frequenza di pedalata, lo sforzo è anaerobico, non solo muscolare”, dice un ciclista intorno ai 60 anni, molto allenato, fisico atletico, in cima al Lissolo, nelle classiche chiacchiere al termine di una salita tra chi si trova a condividere per caso il bellissimo momento del riposo dopo aver conquistato l’agognato scollinamento. “A me non interessa: il 34 me lo tengo quando sono stanco, mi devo divertire quando vado in bici, non è solo una sofferenza”, dice un altro ciclista super-allenato che passa da un passo alpino oltre i 2.000 metri all’altro.
Il cambio di approccio ha soprattutto un nome e un cognome: Tadej Pogacar. È il campione sloveno ad aver reso accettabile anche alla grande platea esigente dei cicloamatori questo ribaltamento nell’approccio. Nel corso della cronometro decisiva dell’ultimo Tour de France, con arrivo in salita, il campione sloveno montava un ‘34’. Quando ha vinto il Giro delle Fiandre aveva un ‘30’. La sua pedalata è agile, ma bella da vedere, lontana dall’ossessivo frullatore di Froome. Ecco perché adesso questa svolta è passata: Pogacar l’ha resa digeribile. Froome, invece, fungeva quasi da invito a restare aggrappati alla tradizione. Nessun cicloamatore, incrociato in salita durante le uscite, avrebbe mai fatto riferimento a Froome come fonte di ispirazione. Pogacar, invece, è un modello da imitare.
Si ascoltano argomenti impensabili fino a un decennio fa. Non contano più solo i muscoli per spingere in salita, ma la capacità cardiaca e polmonare di reggere lo sforzo della frequenza di pedalata per affrontare bene i tratti più ripidi. Così nessuno si vergogna più di avere un ‘30’ o addirittura un ‘34’ nel proprio cassetto posteriore. Perché lo montano anche i grandi campioni capaci di vincere il Tour de France.
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