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Cinque conclusioni dalla Vuelta 2017
La Vuelta a España 2017 è stata una corsa sorprendente. Lo scontro diretto tra i tre più grandi interpreti delle corse a tappe di questo millennio (Alberto Contador, Chris Froome e Vincenzo Nibali) ha portato un'attenzione e una partecipazione insperata intorno alla Vuelta, segnando una fase di crescita nuova per questa corsa, che cerca di scrollarsi di dosso da tempo il suo ruolo di subalternità rispetto a Giro e Tour. Abbiamo sintetizzato in cinque possibili conclusioni quanto visto nelle tre settimane in Spagna.
L'era del kenyano bianco
Sei anni sono trascorsi da quell'estate del 2011, quando un 26enne Chris Froome irruppe sul mondo del ciclismo che conta, scrollandosi di dosso le debolezze dei suoi primi anni di carriera per spiccare il volo in maglia Sky. La Vuelta del 2011 vide Froome correre prima in appoggio a Bradley Wiggins e poi come capitano, fino a terminare secondo a soli 13" da Juan José Cobo. Da allora, la maglia rossa è diventata una sorta di ossessione per il kenyano, che ha incominciato ad inanellare Tour de France ma non ha mai abbandonato il sogno di un trionfo spagnolo, fondamentale per liberarsi dall'etichetta di Tour-centrismo che lo ha accompagna nei paragoni con i grandi del ciclismo. Dopo tre secondi e un quarto posto, lo scorso inverno Froome e la Sky si sono concentrati al 100% sull'obiettivo doppietta, ed oggi quell'obiettivo è raggiunto. E' impressionante come il kenyano sia in grado di aumentare il proprio rendimento una volta focalizzato l'obiettivo, come se riuscisse a vincere solo quando ne ha la certezza già alla vigilia. Una concretezza che ha portato Froome a diventare il primo corridore in grado di fare la doppietta Tour-Vuelta da quando la corsa spagnola è stata spostata fine stagione. Quella che stiamo vivendo, insomma, è l'epoca di Chris Froome.
Gioco di squadra
Dietro il trionfo di Froome, come sempre, c'è il lavoro mastodontico della Sky. In buona parte si tratta di lavoro invisibile, di preparazione scientifica e studio al dettaglio di ogni istante della corsa. E' il lavoro meno apprezzato, quello che fa apparire Froome come una sorta di robot, mentre pedala sbilenco sulla sua moltiplica asimmetrica, senza distogliere mai lo sguardo dal misuratore di potenza e attaccandosi alla radio ogni trenta secondi per farsi teleguidare. Ma c'è anche un altro lavoro di squadra, fondamentale per raggiungere il successo, ed è quello dei gregari. La Sky ci ha abituato da anni ai suoi trenini in salita al Tour de France, per poi presentarsi con una formazione meno ambiziosa sulle strade di Spagna. Quest'anno invece è cambiato tutto, e Froome si è trovato circondato da compagni di altissimo livello, capaci di fare classifica addirittura a loro volta. E se il caso di Mikel Landa al Tour, giunto quarto seppur partendo come gregario, era quello di un separato in casa, quello di Wout Poels alla Vuelta è stato radicalmente diverso. L'olandese ha avuto qualche giornata storta, è vero, ma non è mai naufragato, tanto da chiudere sesto in classifica generale senza mai smettere di dedicarsi al suo capitano, sino all'emblematica ascesa all'Angliru, quando Poels si è portato a ruota Froome anche sulle pendenze più estreme, passando addirittura all'interno dei tornanti. E insieme a Poels sono altri due i nomi di spicco di questa Sky: uno è Mikel Nieve, che dopo un Tour al di sotto della aspettative ha ritrovato confidenza grazie all'imminente passaggio alla Orica. Lo spagnolo è tornato la solita certezza in salita, tanto da chiudere sedicesimo dopo aver dato l'anima per il suo capitano in ogni salita. Ma chi più ha impressionato è stato Gianni Moscon, va detto. Al primo grande giro in carriera, il trentino ha interpretato quel ruolo tipico in casa Sky del distruttore: colui che si mette in testa al gruppo a inizio salita e alza talmente tanto il ritmo da ridurre il numero dei corridori a meno della metà. Che Moscon fosse un fenomeno si sapeva da tempo, ora lo sa tutto il mondo, e soprattutto lo sa Chris Froome.
We'll miss you, Bertie
Ogni appassionato di ciclismo da questa Vuelta dovrebbe portare nel cuore il nome di Andorra. Lo ha ribadito anche lo stesso Alberto Contador, se non fosse arrivata la scoppola già alla terza tappa a farlo uscire di classifica, non avrebbe potuto correre come ha fatto nelle settimane successive: giocando, divertendo, divertendosi. La Vuelta è stata l'ultima gara da professionista del Pistolero, e il madrileño l'ha corsa come un completamento ideale di quella che era stata la sua seconda parte di carriera, quella più povera di successi, ma soprattutto quella di un corridore che solo in età avanzata si è scoperto un magnifico attaccante. Dopo la terza tappa ad Andorra, Contador ha attaccato in undici delle diciassette tappe in linea residue, in alcuni casi lanciandosi in avanscoperta anche due o tre volte. E dopo tanto sforzo, ha raccolto il più dolce e meritato dei trionfi proprio alla fine, sulla cima dell'Angliru che resterà legata per sempre al suo nome. E ad Alberto Contador resteremo legati anche tutti noi appassionati di ciclismo, per quanto ha saputo mostrarci in un decennio di carriera, per i suoi trionfi, per le sue sconfitte. Ci mancherà, Alberto.
A fine stagione
Uno degli effetti strani della Vuelta, da sempre, è che in Spagna spesso i valori si ribaltano rispetto al resto dell'anno, emergono nomi nuovi e inattesi, si assiste a crisi impreviste. Il motivo va cercato nel calendario: la Vuelta arriva a fine stagione, e i protagonisti possono diventare anche quei corridori che durante tutto il resto dell'anno restano lontani dalle luci della ribalta. La Vuelta di quest'anno, però, ha schierato un cast di partenti in grado di sovvertire quest'abitudine, almeno ai piani alti della classifica: tra i primi cinque classificati ci sono corridori che in carriera hanno vinto 19 grandi giri e per 28 volte sono saliti sul podio. Ma la Vuelta non è solo Froome, Nibali e Contador, ed ecco che fuori dal loro cono d'ombra spuntano davvero i protagonisti inattesi. Matteo Trentin che fa poker, vincendo all'attacco ma anche in volata, davanti ai nomi meno scontati come Juan José Lobato, Søren Kragh o Lorrenzo Manzin. Ben dieci tappe che premiano la fuga, con il capolavoro di Stefan Denifl che a Los Machucos ottiene la sua prima vittoria a braccia alzate, la riscoperta di un talento come Aleksej Lutsenko e soprattutto la gara indimenticabile della Lotto-Soudal. Arrivata in Spagna senza capitani e con una squadra di seconde linee, riparte con quattro vittorie di tappa grazie a Thomas de Gendt, la doppietta di Tomasz MarczyÅski e Sander Armée, e per questi ultimi due si tratta di fatto delle prime vittorie importanti in carriera, ottenute da ultratrentenni. Tanto basta per ribadire che, anche quando ci sono i campionissimi, la Vuelta resta la corsa dove tutto può accadere.
Aria iridata
Ma c'è un'altra caratteristica della Vuelta che non può essere dimenticata. Da quando il calendario è stato rivoluzionato con la nascita del Pro Tour / World Tour, la corsa spagnola è una delle prove principali per raccogliere indizi in vista del campionato del mondo. E sebbene negli ultimi anni la maglia iridata sia finita raramente sulle spalle (l'ultimo è Philippe Gilbert nel 2012), in tanti commissari tecnici avranno trascorso tre settimane con il taccuino degli appunti in mano. Anche perchè il mondiale di Bergen, dopo i diversi sopralluoghi, sta gradualmente cambiando faccia, con le nazionali principali che lasciano a casa i velocisti per orientarsi su formazioni più tipicamente da classica. Chi sarà finito sugli appunti di tutti è sicuramente Matteo Trentin, vincitore di quattro tappe e capace di sprintare anche dopo una corsa dura, tanto che questa Vuelta lo ha promosso di fatto al ruolo di capitano della nazionale italiana, condividendo le responsabilità proprio con Gianni Moscon. Dall'Italia alla Francia, che lascia a casa tutti i suoi velocisti e punterà tutto sulle fughe, capitanata da quel Julian Alaphilippe che è stato grande protagonista nella prima settimana, ha vinto la tappa di Xorret de Catí e poi si è concentrato sul salvare la gamba. La Polonia partirà con uno dei grandi favoriti quale è MichaÅ Kwiatkowski, ma potergli affiancare due gregari come RafaÅ Majka e Tomasz MarczyÅski -tre tappe in due alla Vuelta- sarà un lusso che pochi potranno permettersi. In una Spagna priva dei suoi grandi campioni, questa Vuelta ha rilanciato le quotazioni di José Joaquín Rojas, che non ha vinto tappe ma ha attaccato sempre mostrando una condizione invidiabile. Così come Bob Jungels, impiegato spesso dalla Quick-Step nel ruolo di gregario, ma capace di fare davvero male con le sue trenate, che a Bergen esibirà a proprio beneficio. Che possa essere lui il prossimo a concludere una Vuelta in maglia iridata?
Filippo Cauz
(foto via lavuelta.com)
L'era del kenyano bianco
Sei anni sono trascorsi da quell'estate del 2011, quando un 26enne Chris Froome irruppe sul mondo del ciclismo che conta, scrollandosi di dosso le debolezze dei suoi primi anni di carriera per spiccare il volo in maglia Sky. La Vuelta del 2011 vide Froome correre prima in appoggio a Bradley Wiggins e poi come capitano, fino a terminare secondo a soli 13" da Juan José Cobo. Da allora, la maglia rossa è diventata una sorta di ossessione per il kenyano, che ha incominciato ad inanellare Tour de France ma non ha mai abbandonato il sogno di un trionfo spagnolo, fondamentale per liberarsi dall'etichetta di Tour-centrismo che lo ha accompagna nei paragoni con i grandi del ciclismo. Dopo tre secondi e un quarto posto, lo scorso inverno Froome e la Sky si sono concentrati al 100% sull'obiettivo doppietta, ed oggi quell'obiettivo è raggiunto. E' impressionante come il kenyano sia in grado di aumentare il proprio rendimento una volta focalizzato l'obiettivo, come se riuscisse a vincere solo quando ne ha la certezza già alla vigilia. Una concretezza che ha portato Froome a diventare il primo corridore in grado di fare la doppietta Tour-Vuelta da quando la corsa spagnola è stata spostata fine stagione. Quella che stiamo vivendo, insomma, è l'epoca di Chris Froome.
Gioco di squadra
Dietro il trionfo di Froome, come sempre, c'è il lavoro mastodontico della Sky. In buona parte si tratta di lavoro invisibile, di preparazione scientifica e studio al dettaglio di ogni istante della corsa. E' il lavoro meno apprezzato, quello che fa apparire Froome come una sorta di robot, mentre pedala sbilenco sulla sua moltiplica asimmetrica, senza distogliere mai lo sguardo dal misuratore di potenza e attaccandosi alla radio ogni trenta secondi per farsi teleguidare. Ma c'è anche un altro lavoro di squadra, fondamentale per raggiungere il successo, ed è quello dei gregari. La Sky ci ha abituato da anni ai suoi trenini in salita al Tour de France, per poi presentarsi con una formazione meno ambiziosa sulle strade di Spagna. Quest'anno invece è cambiato tutto, e Froome si è trovato circondato da compagni di altissimo livello, capaci di fare classifica addirittura a loro volta. E se il caso di Mikel Landa al Tour, giunto quarto seppur partendo come gregario, era quello di un separato in casa, quello di Wout Poels alla Vuelta è stato radicalmente diverso. L'olandese ha avuto qualche giornata storta, è vero, ma non è mai naufragato, tanto da chiudere sesto in classifica generale senza mai smettere di dedicarsi al suo capitano, sino all'emblematica ascesa all'Angliru, quando Poels si è portato a ruota Froome anche sulle pendenze più estreme, passando addirittura all'interno dei tornanti. E insieme a Poels sono altri due i nomi di spicco di questa Sky: uno è Mikel Nieve, che dopo un Tour al di sotto della aspettative ha ritrovato confidenza grazie all'imminente passaggio alla Orica. Lo spagnolo è tornato la solita certezza in salita, tanto da chiudere sedicesimo dopo aver dato l'anima per il suo capitano in ogni salita. Ma chi più ha impressionato è stato Gianni Moscon, va detto. Al primo grande giro in carriera, il trentino ha interpretato quel ruolo tipico in casa Sky del distruttore: colui che si mette in testa al gruppo a inizio salita e alza talmente tanto il ritmo da ridurre il numero dei corridori a meno della metà. Che Moscon fosse un fenomeno si sapeva da tempo, ora lo sa tutto il mondo, e soprattutto lo sa Chris Froome.
We'll miss you, Bertie
Ogni appassionato di ciclismo da questa Vuelta dovrebbe portare nel cuore il nome di Andorra. Lo ha ribadito anche lo stesso Alberto Contador, se non fosse arrivata la scoppola già alla terza tappa a farlo uscire di classifica, non avrebbe potuto correre come ha fatto nelle settimane successive: giocando, divertendo, divertendosi. La Vuelta è stata l'ultima gara da professionista del Pistolero, e il madrileño l'ha corsa come un completamento ideale di quella che era stata la sua seconda parte di carriera, quella più povera di successi, ma soprattutto quella di un corridore che solo in età avanzata si è scoperto un magnifico attaccante. Dopo la terza tappa ad Andorra, Contador ha attaccato in undici delle diciassette tappe in linea residue, in alcuni casi lanciandosi in avanscoperta anche due o tre volte. E dopo tanto sforzo, ha raccolto il più dolce e meritato dei trionfi proprio alla fine, sulla cima dell'Angliru che resterà legata per sempre al suo nome. E ad Alberto Contador resteremo legati anche tutti noi appassionati di ciclismo, per quanto ha saputo mostrarci in un decennio di carriera, per i suoi trionfi, per le sue sconfitte. Ci mancherà, Alberto.
A fine stagione
Uno degli effetti strani della Vuelta, da sempre, è che in Spagna spesso i valori si ribaltano rispetto al resto dell'anno, emergono nomi nuovi e inattesi, si assiste a crisi impreviste. Il motivo va cercato nel calendario: la Vuelta arriva a fine stagione, e i protagonisti possono diventare anche quei corridori che durante tutto il resto dell'anno restano lontani dalle luci della ribalta. La Vuelta di quest'anno, però, ha schierato un cast di partenti in grado di sovvertire quest'abitudine, almeno ai piani alti della classifica: tra i primi cinque classificati ci sono corridori che in carriera hanno vinto 19 grandi giri e per 28 volte sono saliti sul podio. Ma la Vuelta non è solo Froome, Nibali e Contador, ed ecco che fuori dal loro cono d'ombra spuntano davvero i protagonisti inattesi. Matteo Trentin che fa poker, vincendo all'attacco ma anche in volata, davanti ai nomi meno scontati come Juan José Lobato, Søren Kragh o Lorrenzo Manzin. Ben dieci tappe che premiano la fuga, con il capolavoro di Stefan Denifl che a Los Machucos ottiene la sua prima vittoria a braccia alzate, la riscoperta di un talento come Aleksej Lutsenko e soprattutto la gara indimenticabile della Lotto-Soudal. Arrivata in Spagna senza capitani e con una squadra di seconde linee, riparte con quattro vittorie di tappa grazie a Thomas de Gendt, la doppietta di Tomasz MarczyÅski e Sander Armée, e per questi ultimi due si tratta di fatto delle prime vittorie importanti in carriera, ottenute da ultratrentenni. Tanto basta per ribadire che, anche quando ci sono i campionissimi, la Vuelta resta la corsa dove tutto può accadere.
Aria iridata
Ma c'è un'altra caratteristica della Vuelta che non può essere dimenticata. Da quando il calendario è stato rivoluzionato con la nascita del Pro Tour / World Tour, la corsa spagnola è una delle prove principali per raccogliere indizi in vista del campionato del mondo. E sebbene negli ultimi anni la maglia iridata sia finita raramente sulle spalle (l'ultimo è Philippe Gilbert nel 2012), in tanti commissari tecnici avranno trascorso tre settimane con il taccuino degli appunti in mano. Anche perchè il mondiale di Bergen, dopo i diversi sopralluoghi, sta gradualmente cambiando faccia, con le nazionali principali che lasciano a casa i velocisti per orientarsi su formazioni più tipicamente da classica. Chi sarà finito sugli appunti di tutti è sicuramente Matteo Trentin, vincitore di quattro tappe e capace di sprintare anche dopo una corsa dura, tanto che questa Vuelta lo ha promosso di fatto al ruolo di capitano della nazionale italiana, condividendo le responsabilità proprio con Gianni Moscon. Dall'Italia alla Francia, che lascia a casa tutti i suoi velocisti e punterà tutto sulle fughe, capitanata da quel Julian Alaphilippe che è stato grande protagonista nella prima settimana, ha vinto la tappa di Xorret de Catí e poi si è concentrato sul salvare la gamba. La Polonia partirà con uno dei grandi favoriti quale è MichaÅ Kwiatkowski, ma potergli affiancare due gregari come RafaÅ Majka e Tomasz MarczyÅski -tre tappe in due alla Vuelta- sarà un lusso che pochi potranno permettersi. In una Spagna priva dei suoi grandi campioni, questa Vuelta ha rilanciato le quotazioni di José Joaquín Rojas, che non ha vinto tappe ma ha attaccato sempre mostrando una condizione invidiabile. Così come Bob Jungels, impiegato spesso dalla Quick-Step nel ruolo di gregario, ma capace di fare davvero male con le sue trenate, che a Bergen esibirà a proprio beneficio. Che possa essere lui il prossimo a concludere una Vuelta in maglia iridata?
Filippo Cauz
(foto via lavuelta.com)