Maurizio Sarri, papà Amerigo e l'amore per il ciclismo
Articolo di Marino Bartoletti pubblicato su BIKE Volume 5 edizione Summer luglio-settembre 2021
Figline Valdarno, provincia di Firenze, e Castelfranco di Sopra, provincia di Arezzo, passando da Montalpero, distano sì e no 10 chilometri. Originario di Figline è un certo Sarri, coetaneo di Franco Chioccioli, che, invece, è di Castelfranco. Ma chi da ragazzino riusciva a metterli d’accordo entrambi era Dante Morandi, un anno più vecchio di tutti e due. Morandi era di Raggioli di Pelago, una ventina di chilometri più a nord dei due ‘rivali’, verso il Casentinese.
Crescendo fu Chioccioli a fare carriera, almeno nel ciclismo, al punto di riuscire a vincere il Giro d’Italia nel 1991. Morandi, invece, si fermò a una vittoria di tappa al Giro del 1980, un terzo posto alla Tirreno-Adriatico nello stesso anno e tanti onesti piazzamenti. Ma proprio nei giorni di Chioccioli trionfante in rosa, Sarri – Maurizio Sarri, perché nella nostra storia non è il solo a portare questo cognome –, che alla bici aveva preferito il pallone, chiudeva la sua prima stagione da allenatore con lo Stia per poi passare alla Faellese. Al suo primo scudetto mancavano circa trent’anni. Tre decadi durante le quali non avrebbe mai smesso di amare le due ruote.
“Quando chiamo Davide Cassani, in genere il giorno prima di una tappa importante del Giro o del Tour, se stiamo al telefono un’ora (e succede!) per cinquantacinque minuti parliamo di ciclismo, non più di cinque di calcio. E solo perché sul discorso ci va lui”, confida Maurizio. “E gl’ha ragione!”, interviene stentoreo l’altro Sarri, ‘the original one’. Amerigo, classe 1928, forte come una roccia e vispo come una volpe canuta. “Il suo sport ‘vero’ gl’era il ciclismo”, precisa. “Se m’avesse dato retta avrebbe continuato a correre in bicicletta. E a vincere. Invece niente: gl’aveva in testa solo il calcio, lui!”.
Maurizio sorride. Il babbo è così: prendere o lasciare. Da pochi mesi lo ha convinto che sarebbe meglio lasciar perdere con la bicicletta, almeno per strada; ma i rulli proprio non gli garbano. Punto. Amerigo comunque li fa, indossando la maglia di Nibali. E brontola. Brontola e sorride sotto due occhi furbissimi. “Maurizio vinse tre corse, ma ne avrebbe potute vincere molte di più”, rammenta. “Giòcati meglio gli ultimi 200 metri”, gli diceva, ma niente: “Il Chioccioli lo poteva battere quando voleva”.
Amerigo di ciclismo ne sa parecchio. Cominciò a correre, dopo la guerra, su strade che… di fatto non c’erano ancora. E vinceva, vinceva spesso: trentasette gare fra i dilettanti, grazie a uno spunto da Cannibale. Poi il salto fra gli ‘indipendenti’, che allora erano come dei professionisti in attesa di una squadra. Partecipò anche a due Giri di Lombardia e a tante altre gare. Tutto questo mentre Fausto Coppi stava esplodendo e per il suo amico Gino Bartali cominciava, invece, il declino. Indeciso fra la carriera da corridore e il lavoro, per mettere su famiglia, a 25 anni si arrese. Quando, non tanto tempo dopo, Gastone Nencini, il Leone del Mugello (l’amico più caro che ha avuto nel mondo del ciclismo assieme a Bruno Tognaccini e ad Alfredo Martini), gli propose di entrare in squadra alla Chlorodont per dargli una mano a vincere il Giro d’Italia, disse l’ultimo no. E di quello – almeno per come ne parla – forse si è un po’ pentito.
“Pensa quanto ciclismo ho mangiato nella mia vita”, interviene Maurizio. “Già aveva corso mio nonno Goffredo; e io con un babbo così non avevo scampo. Mi ha cresciuto a pane e due ruote”. Tutte le domeniche, padre e figlio, erano su qualche circuito per allievi o giù di lì. “Un giorno mi indicò un ragazzino del Nord, che era venuto a imparare a correre in Toscana, al ‘Bottegone’, ricorda Sarri. “Si chiamava, e si chiama, Francesco Moser, per il quale maturai un amore feroce”. “Per questo – lo interrompo –, quando qualche anno fa te lo portai nel ritiro del Napoli a Dimaro, ti fece tanto piacere vederlo…”. “Piacere?”, rilancia: “Ma non ti ricordi che mi tremavano le gambe? Io gli regalai la maglia della squadra, lui contraccambiò con una magnum del suo vino più famoso, il 51.151, che poi è la distanza percorsa, in chilometri, a Città del Messico quando fece il record dell’ora. Che emozione!”.
“Il babbo mi faceva divorare tutto ciò che c’era di ciclismo in tv”, prosegue il Sarri allenatore. “Il primissimo ricordo veramente lucido che ho è quello di Gimondi che vince il suo primo Giro d’Italia schiantando Anquetil sul Tonale e sull’Aprica. Diventò il mio idolo, anche se poi il vero amore fu proprio Moser”. “Ma secondo te – gli domando io – i calciatori si rendono conto di essere dei privilegiati di fronte alla fatica vera che fanno i loro colleghi ciclisti?”. Risponde: “Io credo che nessuno di noi, davanti a un televisore, abbia la percezione esatta della sofferenza di un ciclista”. E aggiunge: “Sono cambiate le strade, sono cambiate le bici, sono cambiati i criteri di allenamento, ma resta sempre una fatica immane. Nel ciclismo vincono tutti quelli che arrivano al traguardo”.
Non so resistere e gli faccio subito un’altra domanda. “Quando sei in ritiro in albergo con la tua squadra, fra una partita di campionato e una corsa ciclistica, cosa scegli di guardare in televisione?”. Nessun dubbio. “La gara di ciclismo, per tutta la vita!”, sentenzia. “A volte mi deve venire a chiamare il massaggiatore e non è detto che gli dia udienza”. Intanto Amerigo annuisce. Qualcosa, almeno qualcosa, Maurizio lo ha imparato. Guarda solo, con un po’ di sospetto, la sua e-bike e quella di Marina, parcheggiate nel cortile. Quelle, davvero, non gli vanno ancora giù. Le strade della vita ora – dopo Napoli, Chelsea e Juventus – lo hanno portato ad allenare una squadra dalla maglia biancoceleste, proprio come i colori della celebre divisa Bianchi di Coppi. E da quale società fu tesserato il grande Fausto quando, magro e affamato, tornò dalla guerra, muovendosi nel centro-sud alla ricerca di un ingaggio? Dalla Lazio, che aveva una sezione di ciclismo. E così il cerchio si chiude. E Amerigo sorride.
(Foto BIKE)