Il carnevale del fango: i colori del mondiale di ciclocross a Hoogerheide
Il pittore fiammingo Hieronymus Bosch nacque a 's-Hertogenbosch, attuale capoluogo del Brabante Settentrionale, a metà del quindicesimo secolo. A quei tempi la bicicletta era ancora ben lontana dall'essere inventata e quindi dal diventare strumento di trasporto, piacere, competizione e festa, ma c'è da scommettere che, se fosse già esistita, sarebbe entrata stabilmente nelle visioni del maestro fiammingo.
Nel corso del fine settimana appena trascorso, ad esempio, il pittore avrebbe trovato grande ispirazione spostandosi di un centinaio scarso di chilometri da casa, fino a Hoogerheide, perché a guardare ciò che è andato in scena in quei campi, soprattutto nel pomeriggio di domenica, sembrava proprio di trovarsi in un dipinto di Bosch. Lungi dal dare allo scontro tra Mathieu van der Poel e Wout van Aert un'aura di giudizio universale, né di attribuire alle imprese di Fem van Empel, Shirin van Anrooij o Thibau Nys valori sacri, ma il contorno in cui tutto ciò si è consumato è qualcosa che va oltre il concetto di festa, lo sublima in un carnevale fuori stagione che sembra davvero sfuggire ad ogni logica.
Il tifoso del ciclismo è una figura strana, si sa. È gente pronta a trascorrere ore (talvolta notti) sul ciglio di una strada di montagna per veder transitare una corsa per pochi minuti. Ma quando ci si spinge a Nord, tra Fiandre e Paesi Bassi, questa stranezza acquisisce dimensioni diverse. È diversa nei numeri ed è diversa nell'intensità. Sui numeri è facile fare i conti: domenica pomeriggio al mondiale di Hoogerheide c'erano circa 40mila persone, per quanto una cifra esatta non sia stata comunicata e forse non è nemmeno facile da stabilire in un ambiente caotico come quello del ciclocross.
Ma i numeri detti da soli valgono poco, perché per comprendere la dimensione reale di questa folla bisognerebbe infilarci i piedi, le mani, il naso. Hoogerheide ha una conformazione favorevole al pubblico, è un circuito infossato, nel quale dal rettilineo di partenza si può quasi dominare con la vista i campi sottostanti, si può cogliere l'ultima salita con la coda dell'occhio e ammirare l'estenuante sforzo dell'ascesa lungo la scalinata. Affidandosi alle macchie colorate delle maglie si può persino intuire le vicende della corsa dai passaggi sui punti o dagli scorci tra gli alberi nel bosco. Tutto ciò, però, nel caso della rassegna iridata, andrebbe coniugato meglio al condizionale, perché la condizione che scombina ogni carta è la folla in festa.
Arrivando a Hoogerheide già sabato mattina c'era un fiume di persone che fluiva lungo ogni stradina del paese. Dalle piste ciclabili ai parcheggi (sterminati, Hoogerheide è connessa alle principali città soltanto da una corriera), dai supermercati alle friggitorie, e infine dentro e intorno al circuito. Una fiumana colorata e spensierata, in cui si mischiavano bandiere del Belgio, dei Paesi Bassi, delle Fiandre, ma anche di singole regioni, vicine e lontanissime: c'erano calorose delegazioni delle province britanniche così come della Galizia. E poi i veloclub, ognuno con i suoi colori, e i fan club, che raramente sono dei corridori più titolati, basti pensare che i più corposi al mondiale erano quello di Toon Vandebosch (proveniente dal confine belga, a pochi chilometri di distanza) e di talenti imberbi fiamminghi come Fleur Moors e Wies Nuyens, entrambi in gara addirittura a livello juniores.
Non è un elemento casuale: il ciclismo a queste latitudini è una faccenda davvero locale. E se a livello massimo si nota da un mondiale che è organizzato e dedicato al capostipite dei Van der Poel, a livello più basso ce ne si rende conto da come interi villaggi si mobilitino per il proprio "campione" locale, anche se non ha ancora vinto nulla di importante, e forse mai lo vincerà, per quanto arrivare a correre una rassegna iridata sia già un risultato di alto livello.
Ma se il piano del tifo si comprende e si spiega in qualche modo logico, quella della festa, come sempre capita quando il ciclismo raggiunge queste lande, sfugge ad ogni controllo. C'è chi si è travestito da squadra di supereroi e chi ha distribuito magliette a righe tipo Wally, chi ha assemblato figure in cartone che ritraevano corridori in gara o amici rimasti a casa, c'erano uomini-birra e uomini-tigre, pupazzi in cartapesta con la maglia di campione nazionale e cani imbandierati, c'erano cappelli a forma di biciclette, di elefanti, di uccelli, di verdure e parrucche di ogni colore, c'erano spettatori arrampicati sugli alberi e altri che non hanno mai preso troppe distanze dal bancone del bar o dalla consolle del dj. E birra, a fiumi, dalle prime pedalate del mattino fino a oltre l'imbrunire. E per quanto nei tendoni della festa volassero vassoi in cartone e qualche mattacchione si lanciasse a torso nudo nei cassonetti, per quanto al termine di quell'ultima – ormai celebre – volata, l'aria si sia riempita di un boato da stadio e di coriandoli e birre lanciate in cielo, a Hoogerheide come in qualsiasi altra occasione non si è mai visto uno screzio, un litigio, un momento di tensione.
La festa si fa festeggiando, si celebra diffondendo felicità. Gioia e follia. È la magia del ciclismo fiammingo, ma è contagiosa, e chiunque è pronto ad adottarla. L'immagine di chiusura del mondiale di Hoogerheide ha il volto di Felipe Orts, gran talento spagnolo insoddisfatto del suo 19° posto al traguardo della gara più importante dell'anno. Era un risultato che giustificava una delusione, una chiusura nel camper o direttamente in albergo, e invece il contagio era inevitabile, e il mondiale si chiude con Orts che si infila nel tendone, si arrampica fino al palco del dj e da lì si lancia in un folle stage diving, per poi raggiungere i suoi tifosi con cui proseguire le danze fino alla chiusura. Un richiamo inevitabile anche per gli atleti di primo piano. D'altronde bastava ammirare l'umanità tutto intorno, come se fosse un magnifico quadro.
(credits: Picture by Alex Whitehead and Simon Wilkinson, profilo Facebook UCI Cyclo-Cross)