
Strade Bianche, magia Colle Pinzuto
Una svolta a sinistra venendo da Siena, a destra seguendo il percorso della gara. E si entra in un’altra dimensione. Quella di Colle Pinzuto il giorno delle Strade Bianche. Una dimensione dove la passione pura per il ciclismo si fonde con la bellezza unica della Toscana in questa zona magica.
Appena passato l’ingresso del tratto di sterrato, transennato dagli striscioni pubblicitari della Colnago e accompagnato dal classico cippo posto all’inizio di ogni segmento di strada bianca, si trova il camper del Club Marco Pantani di Borello. Sono sempre lì a ogni edizione, sono lì dalla sera prima, con il loro giacimento di memoria del Pirata e una tv enorme che diventerà il punto di riferimento di una marea di appassionati a metà pomeriggio, nelle fasi finali della corsa. Poco dopo, parte il punto più ripido della salita, chiuso dal doppio tornante dove si assiepano i più lungimiranti: saranno premiati perché proprio in quel punto Pogacar staccherà Pidcock al secondo passaggio dell’anello conclusivo. I tifosi conquistano ogni sasso dove sedersi, come se fosse una poltrona alla Scala. E iniziano a parlare. È incredibile quanto si parli a margine di una corsa di ciclismo. Anche tra sconosciuti che diventano amici in una giornata. L’attesa irrazionale per ore di qualcosa che poi passa in pochi secondi si sublima in chiacchiere infinite, bevute e mangiate: un enorme bar a cielo aperto, che diventa il bar più bello possibile sul rettilineo finale che conduce allo scollinamento di Colle Pinzuto. Impossibile non farsi incantare da quella vista verso le colline di Castelnuovo Berardenga e del Chianti da un lato, verso Siena dall’altro. Prospettive da Simone Martini e Pinturicchio, scenari leonardeschi mentre transita un numero infinito di amatori che si allenano per la Gran Fondo del giorno dopo. Ogni passaggio viene salutato dai boati e dai commenti dei tifosi sloveni piazzati come doganieri prima dell’ultima curva. Sono lì seduti a un tavolo con vino e birra, come nuovi padroni del ciclismo grazie al dominatore connazionale che, di lì a poco, conquisterà anche questa edizione.
C’è una splendida enoteca sulla cima del colle, al di là della strada un chioschetto che sforna panini buonissimi e distribuisce bottiglie di vino. Ogni tavolata sull’erba richiama Gilberto Simoni per fagli qualche domanda e ricordare le sue vittorie. Un signore con la maglia a pois del Tour inizialmente si arrabbia: “Ma possibile che non lo riconosca nessuno? Ma che tifosi sono? Lo abbiamo riconosciuto in quattro”. Poi, quasi per placare la sua irritazione, inizia una processione per le foto con l’ex campione trentino. Ogni scatto è l’occasione per una discussione con il tifoso di turno: “Il ciclismo è così, ci si divide nel tifo come per una squadra di calcio. Così, senza ragione. Uno può scegliere chi perde anziché chi vince sempre. È come per le donne. Ci si innamora così. Io stavo per te e non per Basso. Poi ci sono stati Moser e Saronni. Poi quando ero ragazzo stavo per Dancelli”. Ecco, quando si arriva a Dancelli, si capisce cos’è questo sport, in quale remoti angoli della memoria storica affonda le sue radici. Il signore con la maglia a pois si piazza al suo tavolo per seguire la gara in diretta sul telefonino e diventa il principale dispensatore di notizie.
Passano le ragazze e iniziano a parcheggiarsi nei pochi spiazzi disponibili le ammiraglie di appoggio delle squadre nei posti migliori per distribuire biciclette di scorta e ruote alle auto che seguono più da vicino la gara. I meccanici, gentilissimi, rispondono a ogni curiosità degli appassionati su rapporti dei cambi e profilo delle ruote. E assecondano le manie dei feticisti delle borracce. Alcuni sono amareggiati perché la Uae ha già fatto la selezione dura nella gara maschile: “Per noi questo non va bene perché speravamo in un gruppetto più folto per provare qualche azione”. Anche questa possibilità di parlare con i componenti degli staff durante una delle gare più importanti dell'anno è prerogativa del ciclismo. Un signore toscano si avvicina a una cicloamatrice belga seduta a riposarsi: lui non sa una parola in lingua straniera, lei non sa una parola di italiano. Ma in qualche modo si capiscono. Poco più in basso una signora ha preparato caffè in abbondanza e lo offre a tutti. Un ragazzo romagnolo, uno dei tanti che si è avvicinato al ciclismo perché non gli reggevano più le ginocchia per giocare a calcio, racconta: “Ormai le Strade Bianche è l’unica Gran Fondo che continuo a fare perché è l’ultima che mi ha visto fare mio papà prima di andarsene”. Per un attimo gli occhi non sono lucidi solo per la polvere sollevata dalle auto sullo sterrato. Il ciclismo va nel profondo in un attimo, forse perché è lo sport che più di tutti è attaccato fisicamente alla terra, generando un legame ancestrale. A maggior ragione in questa corsa che, per 80 km, non ha nemmeno la mediazione dell’asfalto.
L’elicottero annuncia l’arrivo dei ciclisti. Il passaparola rivela la caduta di Pogacar. Ma già al primo passaggio su Colle Pinzuto è chiaro che lo sloveno riprenderà Pidcock in pochi minuti. Il turbinio degli atleti è un miscuglio dantesco di ombre che escono velocissime dalla polvere, facce imbiancate e maglie strappate; sangue su braccia, spalle e visi; tagli, abrasioni e lividi. Non c’è quasi più ombra del colore normale della pelle di un uomo. È tutto trasfigurato. I distacchi sono abissali. Compaiono gruppetti dimenticati a distanza di minuti. Nel frattempo passano decine di amatori che continuano ad allenarsi, altro connubio possibile solo nel ciclismo. Un secondo boato annuncia lo scatto di Pogacar all’ultimo dei due transiti sulle rampe più dure di Colle Pinzuto. Gli sloveni sono tronfi come non mai. La delegazione Uae piazzata poco prima dell’ultima curva fatica a contenere una gioia irrefrenabile, espressa con sorrisi furbissimi, consapevoli della tirannia presente e futura, ma al tempo stesso quasi timorosi di mostrare troppo gli effetti di una supremazia mai vista.
Il pettorale numero 1 vola verso Piazza del Campo. Il numero 2, invece, si fermerà proprio lì a bordo strada qualche minuto dopo: è Filippo Baroncini che fatica a proseguire. Tadej continua nel suo regno senza rivali, il suo compagno Filippo è seduto a bordo strada, con le mani sulla faccia, non può vedere le colline sullo sfondo perché sta pensando solo alla scelta da prendere. I d.s. provano a consolarlo, la gente lo incita. Filippo torna in sella, ma si ritirerà poco dopo. Arriveranno solo in 58 su 175 partenti. L’ultimo boato di Colle Pinzuto è per l’ingresso di Pogacar in Piazza del Campo, trasmesso dai telefonini. I bandieroni sloveni non si fermano più. La polvere ormai è insopportabile e in tanti si coprono la bocca. Ma non sono mai stati così felici per un evento sportivo sospeso su secoli di storia. Il maxi-schermo del Club Marco Pantani Borello è ancora affollatissimo per i commenti finali. È giusto che l’ultima parola sia di chi porta avanti la memoria del Pirata. Ancora poche decine di metri e si esce dallo sterrato di Colle Pinzuto per tornare nel mondo normale. Fino alla prossima Strade Bianche.